La ricerca del materiale genetico

Molto prima che fosse provato che il DNA e l’RNA portano l’informazione genetica, i genetisti si erano resi conto che gli organismi viventi dovevano possedere qualche sostanza (il materiale genetico) responsabile del trasferimento delle caratteristiche che vengono passate da genitori a figlio. I genetisti postularono che il materiale responsabile dei caratteri ereditabili avrebbe dovuto avere tre caratteristiche principali:

  • Doveva possedere, in forma stabile, l’informazione concernente la struttura, funzione, sviluppo e riproduzione delle cellule di un organismo.
  • Doveva essere in grado di replicare accuratamente in modo che le cellule della progenie avessero la stessa informazione genetica della cellula parentale
  • Doveva essere in grado di andare incontro a variazione. Senza variabilità gli organismi non sarebbero in grado di mutare e di adattarsi, e l’evoluzione non potrebbe avere luogo.

Attorno al 1890 August Weismann sostenne l’idea che nei nuclei delle cellule ci fosse una sostanza che controllava lo sviluppo cellulare e pertanto la caratteristiche dell’intero organismo. Nei primi anni del ‘900 fu sperimentalmente dimostrano che i cromosomi sono i portatori delle caratteristiche ereditarie. L’analisi chimica dimostrò, nel corso dei 40 anni seguenti, che i cromosomi sono composti di proteine e acidi nucleici, una classe di composti che comprende DNA e l’RNA. Inizialmente molti scienziati ritenevano che il materiale ereditario fosse costituito dalla proteine, immaginando che queste ultime dovessero avere maggiore capacità di contenere informazioni in quando composte da 20 amminoacidi. Il DNA, con i suoi quattro nucleotidi, sembrava una molecola troppo semplice per rendere conto della variabilità degli organismi viventi. Tuttavia, a partire dagli anni ’20, una serie di esperimenti potrò alla definitiva identificazione del DNA come il materiale genetico.

1. L’esperimento di trasformazione di Griffith

Uno dei primi studi fu condotto nel 1928 da Frederick Griffith, che stava lavorando su Streptococcus pneumoniae (chiamato comunemente pneumococco), un batterio che causa la polmonite. Griffith utilizzò due ceppi del batterio: uno, il ceppo liscio (S= smooth) produce colonie lisce e lucenti ed è altamente virulento; l’altro, il ceppo rugoso (R) produce colonie dall’aspetto rugoso ed è innocuo (avirulento). Nonostante questo nel 1928 non fosse ancora noto, ogni cellula batterica del tipo S è avovlta da un involucro polisaccaridico (chiamata capsula) che conferisce al ceppo le sue proprietà infettive e da luogo all’aspetto liscio delle colonie S. Il ceppo ruvido, che è una mutazione del ceppo S, non ha la capsula. Esistono diverse varianti del ceppo S che presentano differenze nella composizione chimica dell’involucro polisaccaridico. Griffith lavorò su due varietà, i ceppi IIS e IIIS. Occasionalmente, cellule di tipo S sono mutate in cellule di tipo R, e viceversa. Le mutazioni sono tipo specifiche, quindi, se una cellula IIS muta in una cellula R, quest’ultima può solo retromutare a IIS e non ad una cellula IIIS. Griffith iniettò dei topi con diversi ceppi batterici, verificando se l’animale rimaneva sano oppure moriva. Quando i topi venivano infettati con batteri IIR, prodotti da mutazioni di batteri di tipo IIS, i batteri IIR non avevano effetto. Quando i topi venivano infettati con batteri vivi del tipo IIIS, morivano, e dal loro sangue si potevano isolare batteri vivi del tipo IIIS. Tuttavia i topi sopravvivevano se, prima di venire iniettati, i batteri IIIS erano uccisi al calore. Questi due esperimenti dimostrarono che i batteri dovevano essere vivi e possedere l’involucro polisaccaridico per potere essere infetti.
In questo esperimento, Griffith infettò alcuni topi con una sorta di miscela costituita da batteri vivi del tipo IIR e anche batteri di tipo IIIS che erano stati precedentemente uccisi al calore. Sorprendentemente, i topi morirono e batteri vivi S erano presenti nel sangue. Questi batteri erano tutti di tipo IIIS e pertanto non avrebbero potuto originarsi per mutazione dei batteri R, visto che una mutazione di questi ultimi avrebbe prodotto colonie IIS. Griffith concluse che alcuni batteri IIR erano in qualche modo stati trasformati in cellule lisce ed infettive di tipo IIIS per interazione con le cellule morte di tipo IIIS. Griffith riteneva che l’agente sconosciuto responsabile per il cambiamento del materiale genetico fosse una proteina e di riferì a questo agente come al principio di trasformazione.

2. Gli esperimenti di trasformazione di Avery

Il biologo americano Avery riprese gli esperimenti di Griffith. gli studiosi cercarono di identificare il principio trasformante studiando in provetta la trasformazione dei batteri da tipo R a tipo S. Nei loro esperimenti lisarono cellule di tipo IIIS e separarono l’estratto cellulare nei suoi componenti macromolecolari quali lipidi, polisaccaridi, proteine ed acidi nucleici. Quindi saggiarono ognun componente per verificare se contenesse il principio trasformante per verificare se contenesse il principio trasformante controllando se fosse in grado o meno di trasformare batteri R vivi derivati da IIS in batteri IIIS. Gli acidi nucleici (a questo punto non ancora separati in RNA e DNA) risultarono gli unici componenti delle cellule IIIS in grado di trasformare le cellule R in IIIS. A questo punto Avery usò delle nucleasi (enzimi che sono in grado di degradare gli acidi nucleici) specifiche per stabilire se il principio trasformante fosse DNA o RNA. Quando trattarono gli acidi nucleici con ribonucleasi (RNasi), che degradano l’RNA ma non il DNA. l’attività trasformante risultò ancora presente. Al contrario, utilizzando desossiribonucleasi (DNasi), che degradano solo il DNA, non si ottenne trasformazione; questi risultati indicavano che il DNA fosse il materiale genetico. Nonostante l’importanza del lavoro di Avery, esso fu criticato perchè gli acidi nucleici isolati dai batteri non erano completamente puri e, in realtà, possedevano dei contaminati di natura proteica.

3. Esperimenti con i batteriofagi di Hersey e Chase

Nel 1953, Alfred Hersey e Martha Chase pubblicarono i risultati di esperimenti che provavano come il DNA fosse il materiale genetico. Stavano studiando un batteriofago chiamato T2. I batteriofagi, o fagi, sono virus che infettano batteri; come tutti i virus, anche il fago T2 non è in grado di riprodursi da solo, ma si replica invadendo una cellula vivente ed utilizzando il macchinario metabolico di quest’ultima per produrre nuovi virus. La cellula ospite quindi si rompe, liberando la progenie virale; questo processo prende il nome di ciclo litico.
Hersey e Chase sapevano che il fago T2 era costituito soltanto da DNA e proteine e che il virus era in qualche modo capace di usare il proprio materiale genetico per riprogrammare la cellula ospite in modo da farle produrre nuovi fagi. Tuttavia, non erano a conoscenza di quale delle due componenti, il DNA  o le proteine, fosse la causa. Per stabilire la natura del materiale genetico, Hersey e Chase fecro crescere cellule di E.coli in terreni contenenti o un isotopo radioattivo del fosforo (32P) o un isotopo radioattivo dello solfo (35S). Questi isotopi vennero utilizzati perchè il DNA contiene fosforo ma non zolfo, e le proteine contengono lo zolfo, ma non il fosforo. Infettarono i batteri con fagi T2 e raccolsero la progenie fagica prodotta; a questo punto, Hersey e Chase possedevano due stock di fagi T2; uno aveva le proteine marcate radioattivamente con 35S, l’altro aveva il DNA marcato con 32P.
Quindi infettarono E.coli non marcato con i due tipi di T2 marcati radioattivamente. Quando il fago infettante era marcato con 32P, gran parte della radioattività poteva essere trovata all’interno del batterio subito dopo l’infezione. una piccola quantità poteva venire trovata associata alle parti proteiche del fago che venivano rilasciate dalla superficie delle cellule dopo aver agitato le cellule in un omogeneizzatore. Dopo la lisi , una parte del 32^P veniva trovata nella progenie fagica. Al contrario, dopo avere infettato E.coli con T2 marcato con 35S, la radioattività praticamente non appariva all’interno della cellula, e niente del tutto nelle particelle fagiche della progenie. Gran parte della radioattività poteva essere trovata associata alle ombre fagiche rilasciate dopo aver trattato la coltura con l’omogeinizzatore. Dal momento che i geni rappresentano il progetto per la produzione delle particelle virali della progenie, era da presumersi che il progetto debba inserirsi nella cellula batterica per poter costruire nuovi fagi. Pertanto, dal momento che era il DNA e non le proteine ad essere entrato nella cellula, come messo in evidenza dalla presenza di 32P e dall’assenza di 35S, Hersley e Chase dedussero che il DNA deve essere il materiale responsabile per la funzione e la riproduzione della fago T2. Le proteine, questa fu l’ipotesi, provvedono il sostegno strutturale che contiene il DNA e le strutture specializzate richieste per iniettare il DNA all’interno della cellula batterica.

 

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Pubblicato da TD MEDICINA

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